IntervisteMusei e professionisti museali: una prospettiva italiana dall'estero

Musei e professionisti museali: una prospettiva italiana dall’estero

Inauguriamo con questo articolo la nostra serie di interviste dedicate ai professionisti museali. Oggi incontriamo Chiara Marabelli (Dottore in Archeologia, MA Museum Studies, PhD Museum Studies) che dopo un percorso in Italia lavora adesso come ricercatrice presso l’Università di Oxford. Parliamo con lei di buone pratiche museali, di lavoro nel settore culturale, di esperienze multisensoriali e inclusive e di molto altro. Buona lettura.

Sommario
Città del Vaticano, Musei Vaticani. La dott.ssa Chiara Marabelli all'interno del Braccio Nuovo durante un placement svolto presso il museo.
Città del Vaticano, Musei Vaticani. La dott.ssa Chiara Marabelli all’interno del Braccio Nuovo durante un placement svolto presso il museo.

Iniziamo subito con una domanda diretta sul tuo lavoro, di cosa ti occupi Chiara? Qual è l’importanza della tua ricerca?

«Dallo scorso anno lavoro come assistente di ricerca alla Faculty of Classics dell’Università di Oxford. Insieme a Milena Melfi e Julia Lenaghan, docente e ricercatrice del dipartimento, ci stiamo dedicando allo studio dei legami tra la pratica di fare calchi di sculture e frammenti architettonici rinvenuti durante le campagne archeologiche degli inizi del Novecento, e le politiche colonialistiche da cui queste spedizioni dipendono. L’interesse comune verso le collezioni di calchi si basa sulla conoscenza della raccolta della Cast Gallery (o gipsoteca) dell’Ashmolean Museum, il museo di arte e archeologia dell’Università di Oxford. È una ricerca importante, perché molto spesso si considerano questi oggetti come “copie innocenti” di famosi esempi della statuaria greco-romana, quando invece la maniera attraverso cui le forme e i gessi sono stati ottenuti, e le immagini importate, diffuse ed assimilate, non è così innocente. Legare le opere al contesto storico-artistico, politico e sociale in cui sono state create è fondamentale, specialmente se da queste problematiche possono nascere spunti di riflessione creativi – e il museo è un luogo ideale per sperimentare».

Qual è il tuo rapporto con il museo?

«Trovo che la parola “museo” possa assumere moltissime sfumature in generale, ma anche nel mio caso specifico – professionalmente e personalmente parlando. Ho conseguito un anno fa il dottorato di ricerca in Museum Studies presso l’Università di Leicester, nel Regno Unito, un percorso accademico che purtroppo in Italia non esiste. Lì, attraverso gli insegnamenti di docenti e mentori ed esempi concreti di progetti innovativi, ho capito che, in parallelo alle attività di raccolta e conservazione, il museo ha una funzione sociale reale: è una piattaforma che permette di insegnare, far riflettere anche su temi scomodi, che provoca, include e potenzialmente esclude (o sicuramente ha escluso), offre collaborazioni comunitarie, favorisce il benessere fisico e mentale. Ho imparato che i musei possono cambiare la vita, e credo che sia vero. Il museo rappresenta uno scrigno di tesori, di esperienze, di persone. Da professionista museale con esperienza nella curatela, capisco che il modo in cui raccontiamo una storia ha un peso sui visitatori – la voce dell’esperto è ovviamente fondamentale, ma d’altro canto non è imparziale. Per questo avere una mentalità aperta e sapersi mettere in discussione sono elementi a cui do molto valore. Mi è sempre piaciuto visitare musei, dalle collezioni permanenti più varie, alle esposizioni temporanee. Forse anche perché, da persona curiosa, mi piace scoprire cose nuove, essere stimolata e riflettere».

Si sente parlare di «fuga di cervelli» e a questo proposito il tuo percorso è un esempio calzante. Nel settore dei beni culturali davvero all’estero la situazione lavorativa offre maggiori attrattive?

«Non saprei dare una risposta univoca, e nemmeno generalizzare. Per quanto riguarda la mia esperienza in Inghilterra, direi che le attrattive sono maggiori – qualitativamente e quantitativamente – sia in accademia che nel mondo del lavoro. Prima di tutto, sono stati sviluppati dei percorsi universitari ad hoc (vedi Museum Studies, ma anche Cultural Heritage Studies, per esempio) che, combinando la teoria con la pratica, permettono agli studenti di inserirsi a piccoli passi in ambienti professionali. Dal punto di vista lavorativo, c’è un’offerta più ampia e variegata, perché le assunzioni non sono necessariamente legate a dei concorsi pubblici, a differenza di quanto avviene in Italia».

Quali difficoltà hai affrontato per inserirti nel mondo lavorativo?

«In Italia, moltissime, anche se la mia esperienza risale a circa dieci anni fa, prima che iniziassi a viaggiare per l’Europa. Ricordo la pressoché totale assenza di proposte lavorative nel settore culturale privato o misto pubblico-privato, per non parlare del pubblico. La maggior parte dei miei colleghi/e in università si è dedicata all’insegnamento, oppure ha intrapreso strade diverse rispetto al percorso accademico seguito. Mi reputo fortunata per essere riuscita a trasformare le mie passioni in lavoro, ma la strada per arrivarci non è stata semplice: oltre a tanta determinazione e impegno, la mia famiglia mi ha sempre incoraggiato e sostenuto».

Quanto peso hanno le relazioni nel tuo lavoro? È importante sviluppare e mantenere una rete di contatti per trovare risposte nell’attività quotidiana?

Nel campo accademico, così come in quello museale e/o culturale, è vitale formare ed intrattenere relazioni; lo scambio di idee e la collaborazione sono fondamentali. Credo sia segno di professionalità, stima reciproca ed apertura mentale riuscire a mantenerle. I convegni, workshops, study days e seminari cui ho partecipato, in particolare quelli con relatori e uditori internazionali, si sono rivelati un’ottima piattaforma per conoscere esperti del settore e nuove buone pratiche».

Secondo la teoria del «Black Swan», esistono sempre elementi e scenari che noi «ignoriamo di ignorare» e che tuttavia si verificano in modo sistematico influenzando il corso degli eventi in modo dirompente e determinante. Nel tuo percorso professionale ti sei mai imbattuta in situazioni impreviste o in avvenimenti inattesi che hanno portato a mutamenti radicali?»

«Sì, molto spesso. Da un lato immagino esistano situazioni che possano portarci a compiere scelte inaspettate, dall’altro molto fa anche la nostra attitudine verso le stesse, e verso il cambiamento. Proprio perché, come raccontavo, coltivare relazioni nel nostro settore è importante, mi è capitato di parlare con persone che mi hanno dato dei suggerimenti, invitato a confrontarmi con altri esperti. Per esempio, proprio durante un’esperienza al Museo Archeologico Nazionale di Malta, a La Valletta, ho conosciuto un’archeologa, ricercatrice all’Università di Cambridge, che è diventata una dei miei più grandi mentori: grazie al suo sostegno e incoraggiamento, ho cominciato il mio percorso a Leicester, qualcosa su cui avevo spesso fantasticato, ma che non credevo potesse concretizzarsi. Per questo dico che gli incontri fortuiti hanno il potenziale di cambiarci. Allo stesso tempo, trovare delle figure di riferimento che mi supportassero e credessero in me mi ha aiutato ad affrontare certe sfide (fare domanda per un corso di studi all’estero, trasferirmi, pensare ad un progetto di dottorato…) che mi spaventavano».

All’estero il patrimonio museale gode di maggiore considerazione? È utile a tuo avviso tentare delle riflessioni generali oppure si rischia di scadere nel luogo comune ed è più efficace ragionare esaminando casi singoli, anche meno noti?

«Credo che generalizzare sia complesso, oltre che probabilmente poco utile. Per la realtà che conosco meglio, quella inglese, non penso che il punto del discorso sia una “maggiore” o “minore” considerazione, quanto piuttosto un approccio differente rispetto al patrimonio culturale e museale.
Mentre in Italia la mentalità rispetto al museo come istituzione rispecchia mentalità ormai datate (la reverenza verso gli oggetti esposti, il silenzio nelle sale, il poco coinvolgimento emotivo e sensoriale per i visitatori), in Inghilterra si è più aperti verso il pubblico e la comunità: trovo molto bello che gli spazi museali vengano pensati anche per sviluppare il benessere della persona (ricordo i Roman Baths a Bath, dove organizzavano corsi di yoga e tai-chi, nel periodo in cui stavo svolgendo lì un placement), per creare legame, ma anche per mettersi in discussione e ridiscutere approcci passati e datati (la decolonizzazione dei musei, ormai pratica comune in ambito anglosassone, da noi si sta timidamente facendo strada). La mancanza o la carenza di figure specializzate in studi e pratiche museali inserite negli organi di gestione del patrimonio culturale italiano, certamente influisce in questa situazione».

Oxford, Ashmolean Museum. Scorcio della Cast Gallery (gipsoteca).
Oxford, Ashmolean Museum. Scorcio della Cast Gallery (gipsoteca).

Parliamo dei criteri valutativi del buon funzionamento di un museo. Un alto dato di affluenza di visitatori è una metrica affidabile oppure ci sono anche parametri alternativi?

«Il dato dell’affluenza può essere sicuramente utile, ma è uno dei tanti parametri (e non quello fondamentale, a mio avviso), che permettono di osservare, monitorare ed eventualmente migliorare il funzionamento di un museo. La profilazione di certi visitatori o un certo tipo di pubblico in un grande museo può servire da modello per altre realtà, più piccole e con meno mezzi. Mi domando anche quale esperienza offra un’istituzione, quando i numeri diventano troppo elevati… Trovo che accessibilità ed inclusione siano gli aspetti più importanti da considerare, piuttosto. L’accessibilità intesa sia come fisica, ma soprattutto simbolica – è un luogo pensato per accogliere tutti? –, attraverso cui passa l’inclusione sociale, culturale, storica, partendo dagli oggetti esposti, e le molte storie che possono raccontare».

Quali caratteristiche ha per te un «buon» museo? Puoi indicarci un esempio concreto?

«Durante gli anni di ricerca del dottorato, ho scoperto il Museo Tattile Statale Omero di Ancona. Si tratta di un luogo speciale, nato dalla volontà del suo attuale direttore, Aldo Grassini, e di sua moglie, Daniela Bottegoni, entrambi ciechi: la collezione, formata da più di 200 copie in gesso e resine delle più importanti sculture classiche e moderne, modellini architettonici, opere originali contemporanee e di design, può essere toccata senza restrizioni. Nato come luogo per accogliere le persone non vedenti, in realtà il museo è visitato da un pubblico molto variegato, proprio a seguito della sua vocazione di abbattere le barriere, fisiche e culturali. Inoltre, si pone come centro di consulenza nazionale e internazionale, offrendo corsi di formazione per personale museale, realizzazione di materiale tiflodidattico, ecc. Visitare il museo e parlare con Aldo Grassini è stata un’esperienza dall’impatto emotivo forte, consiglio a tutti di andarci».

Il concetto di «copia» occupa un posto centrale nel tuo lavoro di ricerca. Nell’ambito della tiflodidattica la replicazione di opere d’arte è una prassi costante per disporre di copie «di lavoro» attraverso cui permettere la fruizione tattile di opere scultoree – e anche pittoriche, rese in bassorilievo –: quali considerazioni ti vengono in mente a questo proposito?

«Uno dei temi che mi affascinano di più è proprio quello degli usi e del valore delle copie – mi occupo in particolare di calchi in gesso archeologici, ma anche in generale –. Trovo che le riproduzioni tattili siano utili non soltanto per i visitatori ipovedenti, ma per tutti, perché favoriscono l’esperienza multisensoriale, che nei nostri musei spesso e purtroppo non viene considerata – nonostante i benefici dell’approccio tattile siano reali e noti negli studi museali da anni».

Oggi le tecniche di stampa 3D permettono di replicare in modo pressoché perfetto un modello tridimensionale, aprendo prospettive didattiche e di ricerca fino a pochi anni fa impensabili. Quali utilizzi vedi per questo tipo di applicazioni nei musei?

«La riproduzione 3D si sta rivelando sempre più utile per scopi di ricerca, documentazione e didattica. Essendo una tecnica senza contatto (grazie alla scansione), il modello non viene danneggiato. Se un oggetto museale è troppo fragile, delicato o non può essere esposto per altre ragioni conservative, la copia si rivela un’ottima alternativa. L’importante è segnalare la natura dell’oggetto (se originale o copia), per non creare fraintendimenti».

All’interno del museo i visitatori come reagiscono di fronte alla presentazione di una copia anziché di un originale?

«Dipende da come la copia viene esposta. Un fatto emerso dalla mia ricerca di dottorato è che l’uso delle copie nell’esposizione museale è largamente accettato dai visitatori, purché la natura di copia sia esplicitata. Nel senso, presentare una copia come se fosse l’originale di riferimento non funziona, perché non possiamo (noi, professionisti museali) dare per scontato che il pubblico possegga il nostro stesso livello di conoscenze ed esperienze. Anche le copie possono offrire spunti interessanti, specialmente se ci si concentra sul processo e la pratica artistica – “come” le copie vengono fatte, “perché”, ma anche il loro valore in diversi campi d’indagine (dall’archeologia alla storia dell’arte) –».

Nel settore dei beni culturali si assiste a una notevole proposta di corsi di specializzazione che propongono e affrontano le prospettive più diverse. Secondo la tua esperienza fino a che livello è davvero necessario continuare a studiare e specializzarsi dopo la laurea prima di poter cercare concretamente una collocazione lavorativa in linea con la propria formazione?

«Dipende dalle strade che una persona intende percorrere. Se l’aspirazione è quella di continuare in ambito accademico, immagino che la scelta del dottorato sia quasi naturale. Lo stesso potrebbe dirsi per quanto riguarda certe posizioni curatoriali. Per il resto, trovo che i corsi di formazione post-laurea/master possano essere utili per approfondire certe tematiche e fornire degli strumenti in più, ma che non siano fondamentali».

Quali consigli daresti oggi a uno studente di archeologia che muove i primi passi nel settore e vuole fare esperienze che siano significative e portino risultati concreti per un inserimento nel mondo lavorativo?

«Anche in questo frangente, non penso di avere una risposta efficace. Nel caso, mi sentirei di suggerire di provare a fare esperienza anche tangenzialmente legate al settore di formazione accademica, dal momento che la situazione lavorativa in ambito culturale non è delle più felici. Acquisire esperienze e abilità trasversali è comunque utile. In parallelo, poi, se le condizioni e la voglia lo permettono, consiglierei anche di non abbandonare i propri interessi e vocazioni. Un’alternativa potrebbe essere quella di guardare all’estero, grazie a progetti di inter-scambio universitari e post-laurea promossi dalla Comunità Europea (Erasmus, Leonardo, ecc.)».


NOTA: Anche a MuseoOggi.it siamo grandi appassionati di Museo Omero!
Dopo aver letto l’intervista, potete leggere alcune delle nostre presentazioni qui e qui .

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